Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta
Inviato: sab 2 apr 2022, 12:51
da Pippoamaranto87
PERCHE' TIFI LIVORNO
Quando mi chiedono del perché io tifi Livorno, li guardo, ammicco un sorriso e vado via.
Il Livorno non è solo la squadra della città che amo, sarebbe troppo banale, troppo semplice.
Livorno non si spiega, si vive.
E se provi a guardare gli occhi di un livornese mentre parla ci vedi tutto quello che non trovi da nessun' altra parte.
E ti ci tuffi dentro...ci rimani affascinato, innamorato.
E capisci perché Livorno è un mondo a parte.
E non c'è un angolo di città che non si racconta, e non c'è tramonto che non si colori di amaranto.
Qui le parole le porta via il vento... perché
l' essere conta più dell'apparire.
E mentre in tutto il resto della Toscana si fanno le gare a chi ce l' ha più lungo, qui si vive di sostanza.
Non ci sono confini a Livorno, non c'è miseria umana, non c'è vita che non vale la pena di essere vissuta.
Livorno ti ascolta, ti mette davanti uno specchio e non ti nasconde la realtà.
Ti abbatte le barriere e ti fa viaggiare per mari in tempesta e tutte le volte che toccherai terra capirai cosa riesce ad offrirti questa città.
Livorno è forte, è testarda, è passionale, ed è pronta a donarsi a te penetrandoti nelle viscere, impossessandosi della tua anima, e capisci che è unica.
Qui impari ad amare, e ad ogni lezione ti spogli di un pezzo di armatura fino a denudarti completamente, senza rimorsi, senza rimpianti.
Emozioni che si vivono sulla pelle, emozioni che vanno provate.
(CIT.)
Re: Testimonianza e tradizione...a briglia sciolta
Inviato: mer 25 mag 2022, 19:32
da piazza
SALUTAMI LIVORNO di Curzio Malaparte
Non ero mai stato a Livorno, e la prima volta che m'incontrai con dei livornesi m'innamorò la loro parlata larga e cantante, e insieme il rosso delle loro labbra. Un rosso che non era quella vinoso, paonazzo, della gente di mare, né il rosa pallido di tutti gli altri toscani: ma un bel vermiglio, proprio il vermiglio del sangue. E le labbra eran giovani, di ragazzi sui vent'anni che avevano lasciato la casa, la bottega e il porto per correre ad arruolarsi volontari nella Brigata Cacciatori delle Alpi, quella di Garibaldi. S'era all'inizio della guerra, ai primi di giugno del 1915, a Perugia, accantonati nel convento francescano di Monte Ripido, appena fuori porta a pochi passi dalla polveriera. Si dormiva nelle celle dei frati, si coglieva l'insalata nell' orto, si consumava il rancio nel refettorio, e la prigione era in sacrestia. Noi toscani eravamo in buon numero, diciassette di Prato, una ventina di Livorno, qualche pisano, ma pochi; di fiorentini neppur l'ombra. Il resto eran volontari d'ogni parte d'Italia, specie delle Romagne. E fosse la disciplina, fosse la novità e la semplicità di quella vita, fosse l'assenza di fiorentini, si viveva in santa pace, s'andava d'accordo come fratelli, ci si voleva tutti bene, senza liti, senza invidie e senza gelosie. La parlata dei livornesi, larga, cadenzata, sonora, al tempo stesso violenta e dolce, mi pareva nascesse dall'ebrezza di un sangue troppo vivo e ricco. Le parole uscivan loro di bocca già tutte fatte, rotonde, pienotte, si sentiva che provavan gusto a pronunziarle, a dar loro quell'accento, quella cadenza, quella forza. Eran parole in forma di seni giovani, di frutti maturi e polposi, pesche, albicocche, susine, pomodori, e dovevan lasciar nel palato un sapore forte e soave. Era forse il succo di quelle parole che tingeva di vermiglio le loro labbra carnose. Se chiudevo gli occhi, ascoltandoli, mi sembrava di veder sgorgare dalla loro bocca, come da una cornucopia, un fiume di bei frutti maturi: ne sentivo anch'io il sapore caldo e profumato, e pensavo che la lingua toscana, così nobile e magra, prendeva da quella pronuncia ricca, pingue, da quell'accento cantante, da quella cadenza felice, un tono dovizioso, quasi orientale. Immaginavo Livorno come una città opulenta, dalle vie larghissime, dai palazzi sontuosi, affacciata su un mare denso, d'un azzurro cruento, dove i tramonti mettevano un riflesso di vigna, di verziere, di frutteto, il riverbero di un'estate d'oro, di un autunno colmo di doni. A poco a poco avevo disertato la compagnia dei miei pratesi: mi parevano toscani pallidi, sbiaditi, in confronto dei livornesi. I quali son certo il popolo più genuino e sincero che io conosca: e quell'esser, la loro città, nata nella granducale età barocca, li fa barocchi, ma a modo lora, senza tanti riccioli e tanti fronzoli. Gonfi, ma senza fronzoli. Come i loro palazzi, le loro chiese, le loro donne. E chiacchieroni, ma di poche parole. Intonati a meraviglia, direi, se non proprio con la storia della Toscana, che è magra, arguta, cattiva e tien tutta nelle Cronache di Dino Compagni e in alcune pagine del Macchiavelli, col paesaggio loro, con quei dolci colli che digradano in mare, quella campagna verde e gialla che s'impadula insensibilmente, e diventa maremma quando meno te l'aspetti. Imparentati, con quel loro paesaggio solenne e delicato, da cui l'ulivo, il pino e il leccio traggono, più che non diano, dignità misura. Dalla descrizione che i volontari livornesi mi facevano della loro citta, ero venuto nel sospetto, per me doloroso, che Firenze non fosse più la capitale della Toscana, che Livorno le avesse rubato il posto. «O dove le trovi» mi dicevano «dove le trovi a Firenze quelle piazze, quelle strade, quei palazzi? O i Quattro Mori? O dove lo trovi il mare? E il porto? Il porto dove lo trovi?». Più che il mare, m'ero persuaso che i livornesi amino il porto. Me ne parlavano come di un luogo di delizia, come di un teatro dove si svolgono scene meravigliose, e avvengono straordinari incontri, dove le più varie e strane genti del mondo si ritrovano come a casa loro, e si raccolgono le mercanzie più preziose del mondo e del mare. Pirati, mercanti, marinai dal viso bruciato dal salmastro, negri, arabi, inglesi, greci, chicchi di caffè, russi pelosi e malinconici, donne di tutti i climi, odalische coperte di veli, indiane col puntino rosso in mezzo alla fronte, e botti di vino profumato, montagne di stoffe, di droghe, di tabacco biondo e navi, navi, navi, che vanno e vengano riempiendo il cielo di nubi di fumo e di bagliori bianchi di vele Parlavano della loro città, me ne descrivevano le bellezze e le grazie con pudica gelosia.
Il più ingenuo, il più innamorato era un ragazzo sui diciotto anni, maggiore di me di un anno, ed eravamo i più giovani di tutta la Brigata. Si chiamava Antenore e faceva non so che mestiere nobile e rozzo nel porto. «Tu vedessi Livolno!» - esclamava con quel suo accento largo e sonoro, e non finiva di decantarmi le magnificenze e le delizie della sua città, il cacciucco, le torpedini che son bicchieroni di rhum con uno schizzo di caffè, le passeggiate all' Ardenza, nei tramonti d'estate, e quell'odore di catrame, di salmastro, di pesce secco, quell'odore di cambusa e di scoglio.
«Dopo la guerra» mi diceva «ti porto con me a Livolno, a casa mia». E rideva, mi pigliava a braccetto, mi picchiava con le mani aperte sulle spalle, era alto e forte, e a quelle manate io rintronavo tutto. Ai primi di luglio ci mandarono al fronte, salimmo al Col di Lana. Il nostro reggimento doveva occupare i costoni di Agai e Salesei, difesi da profonde trincee di calcestruzzo, da nidi di mitragliatrici, da siepi di ferro spinato.
Appena ùscimmo dalle case di Digonera, in fondo alla valle del Cordevole, e prendemmo per l'erta che conduce al villaggio di Salesei, le batterie nemiche del Forte la Corte ci diedero il primo saluto, fu come il fulmine che rimbalza sulle rupi, e schianta gli alberi, i pastori, le greggi. «Sotto ragazzi, sotto!» si udiva gridare intorno. Antenore mi aveva agguantato per un braccio, mi tirava su, vociando: parlava in mezzo ai bagliori gialli e rossi degli SCOPPI, un marinaio sul ponte di una nave in fiamme. Ora si camminava in una selva d'abeti, era già sera, il cannone taceva, un chiaro e gelido silenzio scendeva dagli alti monti, dal cielo tutto tremante di pallide stelle. Giungemmo a Salisei, attraversando la strada delle Dolimiti, le case di Livinallongo bruciavano sulla nostra sinistra, la voce del fiume saliva dalla valle nera, empiva a poco a poco la notte. Qualche morto giaceva riverso nei fossati, tra i cespugli, sotto gli abeti: più su in una radura del bosco, splendevano argentee nell'umida luna le croci di un piccolo cimitero di guerra.
Cimitero di fanteria forse un giorno ci vengo a cuccà, cantavano i soldati. A un tratto un rauco clamore venne giù rotolando lungo le pendici del Col di Lana. Erano i fanti della Brigata Calabria, che attaccavano il Vallone della Morte. Quel lontano vociare confuso, quel crepitio di fucili, i tonfi sordi delle bombe a mano, gli urli dei feriti mi stringevano il cuore.
Ma Antenore rideva, canticchiava, si voltava indietro ogni tanto a gridare ai compagni: «Forza Livolno!». A un certo punto ci fecero stendere al riparo di alcune rocce. Davanti a noi, attraverso i rami degli abeti, si intravedeva un bel prato verde, la luna si rifletteva nell'erba come in un lago, sulla sponda opposta del prato luccicavano i reticolati, biancheggiavano i sacchetti a terra di una trincea. Disteso al mio fianco, Antenore taceva, e ogni po' mi guardava, un sorriso triste gli rompeva l'ombra del viso. Poi a un tratto mi disse: «Se vai a Livolno prima di me, ricordati di mandarmi una cartolina». All'alba venne l'ordine di attaccare, ci buttammo di corsa nel bel prato verde, e Antenore subito cadde, tuffò il viso nell'erba. Lo trascinai dietro il tronco di un abete, gli sollevai la testa. Sorrideva. E gli sgorgavan di bocca fiotti di sangue vermiglio come frutti polposi, maturi. Intorno le pallottole sibilavano rabbiose, Antenore mi fissava, voleva parlare. Fece uno sforzo: «Salutami Livolno» disse, e rovesciò la testa all'indietro.
Alcuni mesi dopo, andando in licenza, mi svegliai alla stazione di Pisa. Scesi dalla tradotta, mi misi a girellare in cerca del treno per Firenze e mi trovai senza accorgermene in quello per Livorno. Era una mattina di gennaio, fredda e trasparente, la voce e l'odore del mare mi vennero incontro per le larghe strade ancora deserte. Mi pareva di camminare accanto ad Antenore, la sua vicinanza m'intiepidiva la guancia, il braccio, il fianco. Lo sentivo respirare, sorridere.
Vagai tutto il giorno per la città. Livorno era già per me, che la vedevo per la prima volta, una città cara, familiare, ritrovavo e riconoscevo a ogni passo i luoghi di una mia misteriosa infanzia, gli aspetti di una città sognata, morta per sempre. Verso sera comprai una cartolina da un tabaccaio, mi misi al tavolino di un caffè del porto, e scrissi sulla cartolina l'indirizzo di Antenore:
Soldato del 51° Fanteria, Cimitero di guerra della Brigata Cacciatori delle Alpi, Salesei, Col di Lana.
Imbucai la cartolina alla stazione, e vedevo il postino militare salire da Digonera a Salesei, prendere per il sentiero attraverso il bosco, spingere il cancellino di legno, curvandosi sulle croci e leggere i nomi dei miei compagni, trovar la croce di Antenore, posar la cartolina sulla fossa ricoperta di neve. Sulla cartolina avevo scritto:
«Tanti saluti da Livolno».